The Enchantment of Death: Briar Rose
In the years when written words were indecipherable signs, entrusted to a world that I couldn’t even reach on tiptoes, a book would be opened only for its illustrations or because my father’s voice was passing through it, over completely unknown roads, although his index finger seemed to trace them out, leaving short trails in which black letters, like objects in a magical night, came to life, silently spelling out in unison the same story which, open and ready to shift and change its pictures, my father was holding on his chest. It was his voice that brought the stories to us as we three were half-lying in the big bed where my little brother was staying up late, with his tiny ears that would soon close, containing a trail of sound and sense in the warm silence. When sleep had taken both of us into its net, an invisible ferryman would leave us across the hallway in our beds. Or sometimes, when we had each climbed up on one of his shoulders, like two small monkeys balanced on them, he would take us up the two flights of stairs and deposit us directly in our room. A tape recorder on the bedside table would wind and rewind blue and yellow cassettes that were bought at newsstands, along with the illustrated booklet comprising the stories that the voices on the tapes told. While the adults downstairs were at a standstill over the crackle of the television or the clatter of the dishes, we, beyond the inaccessible territory of the stairs, in a small valley on high, were abandoned to our room, handed over to the night, while the taped voice turned the veins and knots of the wardrobe into moving shapes, went through the hanging clothes in a breath of life, awakened from torpor the objects that were not at peace, that were still shifting and creaking before reaching their spatial positions.
Of all the stories that stopped over in our room back then, one halted inside me, trapped in the hollow of my ribcage, right where my breathing would break off every now and then, forcing me to keep chasing after the last yawn, to stretch out with my mouth wide open as if the air couldn’t fill me enough. One morning my mother, standing in the hallway in front of a woman’s shadow, said proudly: “She knows the tale of ‘Briar Rose’ by heart. Tell it to her, Franca.” And so the story of that girl with the sweet, thorny name came out of me for the first time, through the thread of a voice that I had woven, one word after another, breaking free, shattering a thorny silence, beyond the doors of the sleeping castle.
Every child who learns a story by heart learns his or her own story. Unbeknownst to the child, it speaks inside her, through the forms of the fairy tale, the life knotted in her blood that will dissolve over the years. For the girls imprisoned in the tower and crouching in the shadow of the walls, with the company only of a hand bringing meals and vanishing, it takes time for their hair to grow long. Much time so that the braided hair can go through the unique small window and down the wall until it touches the ground. Then a king’s son, who has gone hunting in the woods, arrives in that remote place and, using the hair as if it were a silk rope, climbs. This motif present in many fairy tales, such as in the Brothers Grimm story of “Rapunzel,” tells of an isolation and maturation period necessary for a girl before she meets the Other and enters life as a woman. Words also grow in solitude before finding a way out, to open our captivity to the world. If contact with the Other takes place ahead of time, the girl will be wounded and fall as if she has died, trying to recover, in sleep, her growth that has been broken off. The words spoken before they have taken root in our voice are thus torn out, cannot be brought to completion in a sentence or poem, and only ask to continue sleeping.
At the very moment I was reciting the story of “Briar Rose” for the first time, I realized that it was inside me, on the dark, fragmented ribbon of memory. A simple mysterious miracle like the one bearing me forward alone on my bicycle, with two small wheels added to the sides. I was pronouncing my death and my rebirth, my isolation in and my exit from the tower … I was already saved! The prince who comes to reawaken us is ourselves, armed with courage, a sword, and determined to pierce the silence, ready to speak. Then the thorny bush opens as we step forward: it is a mere circle thick with roses soon to wither.
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L’incanto della morte. Rosaspina
Negli anni in cui le parole scritte erano segni indecifrati, consegnati a un mondo che non potevo raggiungere neanche sulle punte dei piedi, un libro si apriva soltanto per i disegni che conteneva o perché la voce di mio padre lo attraversava, per strade del tutto sconosciute, anche se il suo indice sembrava tracciarle, lasciando brevi scie in cui i caratteri neri, come oggetti in una notte magica, prendevano vita, all’unisono sillabavano silenziosi la stessa storia che mio padre teneva sul petto, aperta, pronta a voltarsi e a cambiare figure. Era la sua voce a portare le storie, semidistesi nel grande letto dove mio fratello più piccolo vegliava, con orecchie minuscole che si richiudevano presto, contenendo qualche scia di suono e senso nel silenzio caldo. Quando il sonno aveva preso entrambi nella sua rete, un traghettatore invisibile ci lasciava oltre il corridoio, nei nostri letti. Oppure a volte, arrampicati uno su una spalla e uno sull’altra, come due piccole scimmie bilanciate, ci portava attraverso le due rampe di scale e ci depositava direttamente nella nostra camera. Un registratore sul comodino avvolgeva e riavvolgeva cassette gialle e azzurre che si compra- vano in edicola, insieme a un libretto illustrato con le storie che la voce sul nastro raccontava. Mentre al piano di sotto gli adulti sostavano al fruscio della televisione o al tramestio dei piatti, noi oltre il territorio impervio delle scale, in una piccola valle in alto, eravamo abbandonati alla stanza, consegnati alla notte, mentre la voce del nastro muoveva in figure le vene e i nodi dell’armadio, attraversava in un soffio di vita i vestiti appesi, risvegliava dal torpore gli oggetti che non erano in pace, che slittavano e scricchiolavano ancora prima di raggiungere le loro coordinate spaziali.
Di tutte le storie che sostarono in quegli anni nella nostra camera, una si fermò dentro di me, intrappolata nell’incavo della cassa toracica, lì dove si spezzava ogni tanto il respiro, costringendomi a inseguire l’ultimo sbadiglio, a tendermi con la bocca spalancata, come se l’aria non riuscisse a saziarmi. Una mattina mia madre nel corridoio di fronte all’ombra di una donna dice con orgoglio: «sa a memoria la favola di Rosaspina. Raccontala Franca». E così uscì da me per la prima volta, attraverso il filo di voce che avevo intessuto, una parola di seguito all’altra, liberandosi, infrangendo un silenzio fitto di spine, oltre le porte del castello addormentato, la storia di quella ragazza dal nome dolce e appuntito.
Ogni bambino che impara a memoria una storia impara la sua storia. Non lo sa, eppure parla in lui, nelle forme della fiaba, la vita annodata nel sangue che si scioglierà, negli anni. Ci vuole tempo perché si allunghino i capelli alle ragazze imprigionate nella torre, accovacciate all’ombra delle pareti, con l’unica compagnia di una mano che porta i pasti e scompare. Molto tempo perché i capelli, intrecciati, attraverso l’unica piccola finestra, scendano il muro fino a sfiorare la terra. Allora un figlio di re andato a caccia nei boschi, arriva in quel luogo sperduto, e aiutandosi con i capelli come fossero una corda di seta, sale. Questo motivo presente in molte fiabe, come ad esempio in Raperonzolo dei fratelli Grimm, narra di un periodo di isolamento e di maturazione necessario alla ragazza prima del suo incontro con l’altro e del suo ingresso alla vita come donna. Anche le parole crescono nella solitudine prima di ritrovare l’uscita, di aprire la nostra prigionia al mondo. Se il contatto con l’altro avviene prima del tempo, la ragazza si ferirà e cadrà come morta, cercando di recuperare nel sonno la crescita che le è stata spezzata. Così le parole pronunciate prima che abbiano affondato le radici nella nostra voce, sono strappate, non possono compiersi in una frase o in un verso, chiedono solo di continuare a dormire.
Nel momento in cui pronunciavo per la prima volta la storia di Rosaspina, mi accorgevo di averla in me, nel nastro buio e frammentato della memoria. Un prodigio semplice e misterioso come quello che mi portava in bicicletta da sola, con due rotelle piccole aggiunte ai lati. Pronunciavo la mia morte e la mia rinascita, la mia segregazione e la mia uscita dalla torre … ero già salva! Il principe che viene al risveglio siamo noi stessi, armati di coraggio e di spada, noi stessi decisi a bucare il silenzio, pronti a parlare. Allora il roveto si apre ai nostri passi, non è nient’altro che un cerchio fitto di rose presto sfiorite.
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“The Enchantment of Death: Briar Rose” is included in The Butterfly Cemetery: Selected Prose, 2008-2021, by Franca Mancinelli, translated from the Italian by John Taylor. Published in April 2022 by the Bitter Oleander Press. You may acquire a copy from Bookshop.org by clicking here.