The four poems appearing below are included in Dolore Minimo by Giovanna Cristina Vivinetto. This debut is the first collection of Italian poetry to address trans identity. The bilingual Italian-to-English translation of this poetry collection has been awarded the Malinda A. Markham Translation Prize, and will be published by Saturnalia Books in Fall, 2022. Poems from this collection have appeared or are forthcoming in the anthology Italian Trans Geographies, The Journal of Italian Translation, The Offing, Copper Nickel, Alchemy, and Smartish Pace. — Dora Malech and Gabriella Fee.
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To calm the ill that assails,
the poet sings it. Makes a show,
in verse, of messing up,
as if to flaunt the infinite
smallness of the threat.
The poet’s weapon is light
against the voiding shadow,
the cracks where menace lurks.
You can tell me you’re weary
of laying bare the broken vase.
The wobbling wooden table.
The unsound wall.
You tell me no one is willing
to wear another’s pains like pearls
or walk them leashed like docile dogs.
But it is right for a poet
to point a finger at the wound.
The sick, stiff limbs.
Even when you won’t listen,
the poet is whispering.
So my ache is eased
by each verse. I sing the ache
out, I shout to free it
from my afflicted bones.
I don’t want you to ache
to save me. I can tend
this pain, watch it grow and wither.
Crouch down exhausted until it asks
nothing. My hurt
won’t hurt you anymore.
* * * * *
We were among those called
against nature. Our existence
toppled and twisted the laws
of creation. But how could we,
luxuriant in our adolescent bodies,
be a waste, an untenable defect?
They convinced us,
persuaded us to deny ourselves.
We, so young, were forced
to revise our bodies,
obligated to look our nature in the face
and suppress it in favor of another.
To tell ourselves we could be
who we didn’t want to be, who we weren’t.
We, the only innocents.
The last living beings, we,
transplanted to the world of the dead
to survive.
* * * * *
A semantic error hides
in the word reassignment.
The prefix re– suggests to me
a loss, attempts
abandoned, an injustice
that vindicates itself by trying
to put things right.
So someone tell me where I lost
what I need. Maybe it has fallen?
Maybe it rolled away by mistake?
I didn’t notice what fell,
what dropped to the ground.
Maybe it came to rest
in the briars of childhood.
So try to find it,
what I dropped. Find it
and return it to me – unhand it
but tell me: “careful,
next time you won’t get it back,
pay attention, it’s easily lost.”
And then give me back last Tuesday
and the month of August, 2012,
and sixteen misunderstood years,
and every other day back to the first
– perhaps the most devastating
because it set the centrifugal loss
in motion. So birth – each birth –
yields fruit of striving,
and losses to account for
and names that adhere poorly
to things. And what they call
reassignment, I simply
call what it is:
the first cry of life.
* * * * *
The space of my body is this:
a small field
sown by a rough wind.
I don’t know when and where
shoots will bloom, I don’t know
if they’ll have a name or if I’ll know what to call them.
But I’ve seen these blunt hands
held between hands. I’ve anticipated these years
intertwined like branches, like legs
(where the body ceases
the forest advances). I know silence
and the patience of subsoil
– where you were and didn’t call. I bore you,
bore witness to the storm’s urgency,
the rain that floods us
and discovers us united at the root.
As if we were never divided.
As if these four years
never had me, not even once,
used to living in pain.
As if I still persist,
plant body in body
– contain it entirely within me
to learn to do without.
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Per acquietare il male che lo assale
il poeta lo canta. Ne fa bella
mostra nei suoi versi per sbugiardarlo,
quasi a gridargli in faccia l’infinita
piccolezza della sua minacciosità.
Il poeta ha per sé l’arma della luce
a rischiarare i vuoti d’ombra,
le fessure dove s’annida, il male.
Potrai dirmi che si è deboli
mettendo a nudo i vasi incrinati.
La tavola di legno che balla.
Il punto del muro che non regge.
Nessuno – mi sembra udirti – è disposto
a indossare i tuoi dolori come perle
o a portarli in giro come docili
cani al guinzaglio. Eppure è proprio
del poeta indicare col dito
la ferita. I lembi ammalati
che non chiudono. Anche se tu
non assisti, ti sussurra comunque
un segreto che non puoi avere.
Così il mio male si estingue
su ogni mio verso. Lo canto,
lo urlo per liberarlo dal mucchio
di ossa che ha contagiato.
Non voglio che tu lo colga
per salvarmi. Mi aspetto
che lo guardi crescere. E appassire.
Rannicchiarsi sfinito fino a non esigere
più nulla. Mi aspetto che il mio male
non ti faccia più male.
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Noi eravamo fra quelli chiamati
contro natura. Il nostro esistere
ribaltava e distorceva le leggi
del creato. Ma come potevamo
noi, rigogliosi nei nostri corpi
adolescenti, essere uno scarto,
il difetto di una natura
che non tiene? Ci convinsero,
ci persuasero all’autonegazione.
Noi, così giovani, fummo costretti
a riabilitare i nostri corpi,
obbligati a guardare in faccia la nostra
natura e sopprimerla con un’altra.
A dirci che potevamo essere
chi non volevamo, chi non eravamo.
Noi gli unici esseri innocenti.
Gli ultimi esseri viventi, noi,
trapiantati nel mondo dei morti
per sopravvivere.
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Un errore semantico si nasconde
nella parola riattribuzione.
Il prefisso ri- mi dice che c’è stata
una perdita, qualche tentativo
abortito, un’ingiustizia
che si vendica riprovando
a mettere a posto le cose.
Allora qualcuno mi dica dove ho perso
quel che mi serve. Forse è caduto?
Forse è rotolato giù per sbaglio?
Eppure non mi sono accorta
che cadeva, che andava giù
a terra. Forse è finito
tra i cespugli dell’infanzia.
Dunque si provi a riprenderlo,
quello che mi è caduto. Ritrovatelo
e riattribuitemelo – si abbia però
la cura di dirmi: “sta’ attenta
che un’altra volta non te lo diamo,
fa’ attenzione che si perde facilmente”.
E poi riattribuitemi lo scorso martedì
e il mese d’agosto duemiladodici
e i sedici anni fraintesi
e tutti quanti i giorni fino al primo
– che forse è stato il più fallimentare
perché da lì si è innescata una perdita
centrifuga. Così la nascita – ogni nascita –
appare il frutto di tentativi,
di perdite da aggiustare
e di nomi che poco aderiscono
alle cose. E quello che si chiama
riattribuzione, io banalmente
lo chiamerei per quello che è:
il primo richiamo della vita.
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Lo spazio del mio corpo è questo:
campo di semina minuta
piantata da un vento crudele.
Io non so fra quanto e dove
fioriranno i germogli, non so
se avranno un nome o saprò chiamarli.
Ma ho visto queste mani spuntate
tra le mani. Ho presentito questi anni
intrecciati come rami, come gambe
(perché dove il corpo cessa di essere
corpo, accade il bosco). Conosco il silenzio
e l’abitata pazienza del sottosuolo
– dove c’eri, e non chiamavi. Gestavi.
Ho assistito all’urgenza della tempesta,
della pioggia che sommerge
e ci scopre uniti alla radice.
Come se non ci fossimo mai divisi.
Come se questi quattro anni
non mi avessero mai, neanche una volta,
abituata ad abitare il dolore.
Come se ancora mi ostinassi
a piantare corpo nel corpo
– contenerlo unicamente in me
per imparare a farne senza.
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